Abbiamo fatto splash: intervista a Maurizio Nichetti
Ho “abbordato” Maurizio Nichetti nella hall del Teatro Nuovo: “Buongiorno signor Nichetti, sono anni che vorrei intervistarla”, il che era vero, ma non avevo mai trovato l’occasione a portata di mano. Ed ora eccola qui, perché lasciarsela perdere? Nichetti ha subito dato la sua disponibilità e, fissato giorno, ora e luogo, eccoci al Gotham bar di“Wow – Spazio Fumetto ” di viale Campania (e quale luogo migliore), con una piccola task force: Luca Cecchelli, cinefilo e quasi attore, Gabriele Rigola, già collaboratore di QUATTRO ed esperto di cinema, Rita Cigolini, fotografa professionista ed io. Tutti intorno ad un tavolo tipo “sala riunioni dell’amministratore delegato” con Maurizio Nichetti, davanti ad una tazza di tè… Una lunga intervista collettiva, che ci ha permesso di allargare lo sguardo non solo sul cinema di Nichetti ma sul cinema italiano e non solo, per arrivare alla fine in piazza Insubria…. Grazie a Maurizio Nichetti per la sua disponibilità di tempo e per quanto ci ha voluto trasmettere. Grazie a Luca Cecchelli per averla trascritta integralmente.
Stefania Aleni
Per cominciare è d’obbligo una breve introduzione e sintesi della sua carriera ad oggi. Mi sono interessato al mondo dell’arte fin dai tempi della laurea in architettura: a partire dal 1971 ho cominciato a lavorare come sceneggiatore per la Bruno Bozzetto Film ; ho frequentato poi il Piccolo Teatro, nel quale ho seguito, oltreché come attore, un corso di mimo tenuto da Marise Flach, allieva di Etienne Decroux. Dopo Allegro non troppo (1976) di Bruno Bozzetto, film nel quale compaio come attore, ho diretto e interpretato Ratataplan (1979), il mio primo lungometraggio, nel quale cominciano ad emergere i tratti tipici del mio cinema, ovvero la fusione tra la mimica, il cartone animato e la vena surreale. Per il cinema ho diretto una decina di pellicole, ma ho lavorato molto anche per la televisione: nella stagione 1984-85 ho condotto come presentatore il varietà Quo vadiz? con Sydney Rome su Retequattro; nel 1985-86 la trasmissione per ragazzi Pista! su Raiuno; senza contare le innumerevoli pubblicità. Sono stato membro di importanti giurie, come quella del Festival internazionale del cinema di Berlino e del Festival di Cannes. Dal 2001 mi sono cimentato anche nella regia teatrale con alcuni spettacoli di prosa – cito ad esempio La Verità con Massimo Dapporto e Antonella Elia – e ultimamente mi sto dedicando per lo più alla televisione” In che modo si è interessato ed ha cominciato a fare cinema? Ho cominciato partendo dal teatro e dal cartone animato. Fare cinema per me non ha significato quindi rifarmi propriamente alla tradizione della storia del cinema, ma più istintivamente applicare questi diversi linguaggi, che già mi erano familiari ad un campo che ancora non conoscevo e che volevo esplorare. Questo è il motivo per cui Ratataplan è nato diverso da qualsiasi altro lungometraggio girato in precedenza: è ricco di mimo e cartone animato più di qualsiasi altro film italiano del prima e, oserei dire, del dopo. Lei è stato definito da alcuni il Woody Allen italiano (anche se a ben vedere nei suoi film gioca forse di più sulla maschera di Charlot, ovviamente rivisitato nell’ottica della tradizione italiana). Quale rapporto ha coi generi e quali sono o sono state le sue influenze cinematografiche più importanti ? Il mio tipo di cinema è difficile da definire. Sicuramente il genere che prediligo è la commedia, ma un tipo di commedia non realistica e che allo stesso tempo presenta sempre storie legate a fatti molto reali. La definizione che più mi piace tra quelle che ho sentito negli anni – i critici hanno in qualche modo costantemente cercato di catalogarmi in un genere preciso – è quella di un critico canadese che a proposito di Luna e l’altra descrisse il mio cinema come “neorealismo fantastico”. Trovo calzante questa definizione perché il termine “neorealismo” fa riferimento ad un cinema piccolo, povero, raccontato per strada con strumenti relativamente semplici e che parla di storie
vere; però nello stesso tempo è “fantastico”, quindi non ha niente di realistico. In Italia francamente nessuno mi avrebbe mai attribuito una definizione simile, perché neorealismo nel nostro Paese è già sinonimo di realismo. Esiste invece un filone di questo “neorealismo fantastico” rappresentato da alcuni registi che hanno raccontato delle favole: ad esempio il Buñuel dell’ultimo periodo ne Le charme discret de la bourgeoisie (Il fascino discreto della borghesia, 1972) o Amarcord (1973) di Fellini. Amarcord è un film sulla Rimini degli anni Trenta che più vero non potrebbe essere, però visto in chiave fantastica, onirica. In pratica si tratta del quotidiano reso con fantasia; di storie sì favolistiche, ma fornite di dettagli reali. Significativi possono essere anche Il Pranzo di Babette (1987) di Axelo le opere di Leconte. Leconte, come me, ha girato pochi lungometraggi perché questo genere di cinema richiede di essere sostanziato da idee molto originali e non ti permette di sfornare film in serie. Non mi riconosco invece in quella critica che mi vuole paragonato o paragonabile a Woody Allen, proprio perché Allen negli anni è diventato troppo grande e produttivo: non posso confrontarmi con un autore di più di quaranta film (e senza contare che, in questo numero, qualcuno sarà certamente bello e qualcun altro brutto, ma sicuramente non tutti geniali!). Forse il mio cinema può avvicinarsi, con minore o maggiore profondità e sensibilità, al Woody Allen di Zelig (1983) o della Rosa purpurea del Cairo (1985): in quei film effettivamente emergeva traccia di neorealismo fantastico. Ma Allen - che in America non è quel genio o quel mito che è considerato in Italia, ma semplicemente un autore che fa cinema per conto suo perché non vuole produrlo nessuno!- non ha girato quaranta Rose purpuree del Cairo (quando riesci a scrivere una decina di lungometraggi così, come per Leconte e me, è già grasso che cola!). La sua genialità sta invece, secondo me, nella capacità di reinventarsi: anche quando cioè non aveva idee brillanti per girare un film fantastico, riusciva a far bene cinema realistico (campo lungo, lui che parla per mezzora con Diane Keaton e il film risultava interessante comunque). In quel caso però è geniale la scrittura e, ribadisco, in quel tipo di Woody Allen non mi riconosco minimamente perché io non scrivo dialoghi, non mi piace il cinema parlato, o meglio non mi interessa. E a ben vedere dalla sua produzione Woody Allen ha girato più film “parlati” rispetto a come piace scriverli a me. Diciamo allora che in quelli che piacciono a me mi riconosco sicuramente (ride)! Io sono soddisfatto della qualità dei miei film, che si rispecchia anche nel numero. So che avrei potuto realizzarne di più, ma so anche che avrei fatto meno pubblicità, televisione, cartoni animati,… meno la mia vita. Quanto alla mia formazione cinematografica non posso dire di avere avuto un passato da cinefilo di Antonioni o di Bergman – certo, quando poi ho cominciato a fare cinema sono andato a guardarmi anche i loro film, ma più con spirito documentaristico, e senza fanatismo. Anche perché è opportuno fare una riflessione: ha poco senso vedere oggi quei film con spirito critico perché, in fin dei conti, non sono che un prodotto della loro epoca. Quando Bergman ha girato Il settimo sigillo la scena della personificazione della morte che gioca a scacchi sulla spiaggia risultava forte, folle e dirompente se riportata a quel contesto storico; ma a rivederla oggi sembra la notte di Halloween, quasi una parodia di un film serio. Sono opere difficili da giudicare a distanza di anni. Per contro è vero che altri film, pur datati, invecchiano meno, li rivedi a distanza di anni e li trovi sempre attuali. E credo che il motivo sia da ricondurre al genere: la commedia e il comico cioè non invecchiano rispetto al genere drammatico. Ad oggi non si può affermare che A qualcuno piace caldo oggettivamente sia brutto: un’attrice come Marilyn Monroe, due comici eccezionali, una sceneggiatura strepitosa con scene clamorose come il travestimento di Jack Lemmon e Tony Curtis, e tutta una struttura e un’atmosfera che riesce a farti ridere ancora oggi allo stesso modo di ieri. La risata è universale e funziona sempre: i bambini ridono ancora davanti alle comiche di Stanlio e Ollio o ad un certo Totò quando lo vedono in televisione; il fatto che siano comici del passato non determina che facciano ridere meno (bisogna solo avere il tempo e la pazienza di non cambiar canale se si vede bianco e nero.). Non credo invece che si possano seguire altri film drammatici
d’epoca con altrettanta attenzione: il genere drammatico ha un qualcosa che lo lega alle mode culturali e intellettuali del momento in cui viene scritto. E, aggiungo, il motivo per cui un regista viene considerato un grande drammaturgo sta nel riconoscimento, attribuitogli dal consesso degli intellettuali suoi coetanei, che consiste nel sapersi esprimere intellettualmente in modo tale da saper connotare le proprie opere di una tale mole di significati di attualità al punto che, se anche in una scena inquadra un muro bianco per mezzora, quella scena diventa qualcosa di geniale. Però si capisce bene che, per chi non è suo coetaneo e non ha vissuto o respirato quel clima e non può quindi cogliere tutta quella dietrologia di significati, quel muro bianco è e rimarrà sempre e solo un muro bianco. Mi spiego? Faccio un esempio vissuto sulla mia pelle. Ricordo quando uscì Lettera aperta a un giornale della sera (1970) di Maselli: tutti i miei coetanei ed io andammo a vederlo perché parlava di noi, di ciò che facevamo nei collettivi e delle nostre attività… ecco, a rivederlo oggi invece c’è da svenire (ride)! La critica, per considerarti, deve prima riconoscerti, etichettarti e sdoganarti come intellettuale. A tutti i costi. E questo vale più per chi si misura col genere drammatico; ma non tutti i comici sono disposti a sottostare a questo processo: a Keaton non importava nulla, ed è morto povero; Stanlio e Ollio sono morti poverissimi senza avere neppure i diritti sulle loro immagini. Sono artisti che non capirono quanto invece la loro maschera potesse essere un’icona e potesse quindi avere anche un valore all’epoca. Forse Chaplin è stato uno dei pochi che ha saputo vendersi meglio: e avendolo intuito aveva messo sotto copyright tutto quello che faceva. Ma in questo caso parliamo anche di mentalità diverse… Woody Allen probabilmente lo capì, tanto che ad un certo punto della sua carriera girò Interior (1978), un film alla Bergman. Ebbene, quest’opera decretò che tutto il mondo dell’intellighenzia lo riconoscesse come uno di loro; ma se avesse continuato a scrivere solo film come la Rosa purpurea del Cairo (che diresse in seguito, ma è molto più bello!) non lo avrebbero mai considerato un grande autore. Però sono sicuro che tra cento anni, quando scriveranno i manuali di storia del cinema del Novecento, la Rosa purpurea del Cairo rimarrà e Interior farà la fine degli altri film di Bergman, proprio in quanto contingente a quel periodo storico. Altro esempio calzante di quanto sostengo è Jerry Lewis: ha ispirato decine di artisti e per anni è stato sempre considerato, suo malgrado, solo un buffone dall’Academy Award, l’intellighenzia del cinema americano. Dal punto di vista registico invece ha ideato dei meccanismi e dei tipi di riprese che nessuno ha mai valutato col giusto peso. Tanto per dirne una fu il primo ad utilizzare il monitor attaccato alla cinepresa, la vidicon camera: dato che spesso recitava e si filmava, utilizzò un sistema per potersi rivedere subito (la prassi invece, fino ad allora, era girare prima tutta la scena con le macchine da presa e revisionare poi tutto il materiale magari dopo tre giorni). Senza contare che nella sua carriera si esibì in numeri incredibili, piroette e acrobazie che nessuno sapeva rifare.Quando poi interpretò Re per una notte (1983) di Scorsese, nel quale ha recitato legato ad una sedia per un’ora e mezza, cosa che poteva fare chiunque, vinse l’Oscar per la migliore interpretazione! Per concludere, i film drammatici non possiedono plusvalori o meccanismi universali che possiedono invece i film comici, ancora dopo tanti anni. Il comico evidentemente non invecchia perché lavora su delle emozioni che sono universali, a dispetto delle mode; il film drammatico invece, serio e concettoso, lavora su contenuti dialettici e culturali che appunto passano di moda (tanto che con gli anni si finisce a considerare queste opere, seppur con ammirazione, soltanto una testimonianza del loro tempo). Nichetti non è solo regista, ma anche attore, dalla sua esperienza di mimo al Piccolo passando alla fondazione di Quelli di Grock. Quanto conta l’arte corporea nel suo cinema? Dai miei film si ricava subito quanto io ponga l’accento più sulla fisicità che non sul dialogo. Chi li ha visti – e questo per me è un vanto – non si ricorda battute o frasi celebri (come ad esempio la morettiana “facciamoci del male”); quello che rimane impresso invece, si tratti di Ladri di saponette
o Luna e l’altra o Stefano Quantestorie o Ratataplan, sono proprio le scene, le situazioni o i plot stessi dei miei film. Hanno tutti degli incipit talmente originali (ad esempio una donna che perde l’ombra, un contestatore del ‘68 che vive sei vite,…) che colpiscono di più l’attenzione le sequenze e le scene che non i dialoghi. Mi piace produrre questo tipo di cinema, altrimenti avrei fatto radio, scritto un libro, o fatto un altro tipo di lavoro. Il fumetto ed il cartone animato hanno influenzato molto la mia regia: coi bambini non puoi far troppi dialoghi e allora devi lavorare molto sulle immagini e sulla situazionalità. Mi ritrovo in linea col cinema di colleghi quale il regista Jean Pierre Jeunet (Delicatessen, Il favoloso mondo di Amelie) o Terry Gilliam (Il Barone di Munchausen), che veniva dai Monty Pyton; anche loro hanno avuto un percorso simile al mio, passando attraverso l’esperienza del cartone animato o del fumetto. Data la peculiarità del suo cinema, quale è il suo rapporto col panorama cinematografico italiano di quegli anni? Anzitutto abitando a Milano sono stato ulteriormente tagliato fuori da quel mondo. Anche se bisogna ammettere che tutta la mia generazione è stata abbastanza isolata: Moretti ad esempio è una monade, un caso a sé; ma anche Troisi, Benigni, Verdone, tutti i colleghi che hanno debuttato in quegli anni, giravano e dirigevano i loro film, e per un motivo o per l’altro si sono ritrovati ad essere attori, sceneggiatori e registi di se stessi. Ognuno di loro lavorava in proprio (tranne forse in pochissimi ma rari casi come Non ci resta che piangere in cui Benigni e Troisi hanno collaborato; Verdone, essendo più attore, ha lavorato con tanti, collaborando con tutti coloro che accettavano di far coppia, da Alberto Sordi fino a Muccino). Anche io facevo i miei film ma nessuno mi ha mai chiesto di partecipare o collaborare insieme ad altri. Ho avuto una parte in Bertoldo Bertoldino o Cacasenno perché me l’ha chiesto Monicelli e mi sono divertito. Ho conosciuto Mario molti anni prima di girare Ratataplan, quando io ancora non ero nessuno e lui cercava di far leggere una sceneggiatura che gli avevo dato. In seguito siamo rimasti amici e un giorno mi chiese se avessi voluto interpretare Bertoldino, ma io gli dissi che portavo i baffi e lui mi rispose, per appassionarmi al progetto: “Beh? Immaginati un po’ quanto è originale fare Bertoldino coi baffi!”. Monicelli, persona squisita, la prima che ho conosciuto a Roma, non è forse colui che mi ha aiutato direttamente in questo mondo, ma è stato certamente quello che mi ha fatto capire come si può essere cinematografari e allo stesso tempo persone per bene. E non è così scontato: posso dire che quando metti il naso nel mondo del cinema, la prima cosa che vedi, all’epoca specialmente, sono i fasulli, quelli che si mettono in mostra, che vivono sopra le righe, espressione di un mondo farraginoso; ma quando ho conosciuto Mario ho capito che si poteva fare cinema con la concretezza di un lavoro normale. Mi ha fatto capire che anche io potevo coltivare i miei interessi senza finire nel celeberrimo girone di sesso droga e rock’n’roll! Bertoldo Bertoldino e Cacasenno è stato l’ultimo colossal in costume proposto dal cinema italiano dopodichè si è perso il gusto di seguire e proporre questo tipo di filone. Oramai i film in costume sono considerati una rarità. In un’altra occasione mi fece una proposta Citti, per un episodio dal titolo Il ritorno di Guerriero all’interno di Sogni e bisogni che era una serie televisiva, forse oggi ancora reperibile nelle teche Rai. All’epoca Asia Argento, che ha debuttato in quel film da bambina, avrà avuto una decina d’anni, per cui risalirà alla fine degli anni Ottanta. Ho lavorato inoltre con un regista francese della Nouvelle Vague, Jean Charle Tachella (forse di origine italiana), della generazione di Truffaut e Godard, presidente dei registi francesi. Mi chiamò a fare un film francese in America, Tous les jours dimanche. Non ho partecipato a produzioni che hanno avuto particolare successo (ho lavorato con Citti per la televisione; il film di Tachella era francese e non è neanche uscito in Italia), però mi sono divertito parecchio e perché no. Quando qualcuno mi ha chiesto di lavorare a progetti ragionati e sensati io ho accettato molto volentieri; ma quando capitava che mi telefonassero per dirmi “devo proporti un film, tu vieni coi
tuoi occhialini, fai le tue gags che sai fare” a quel punto pensavo “beh, allora mi faccio un film io!”. In ognuna di quelle occasioni non ho mai accettato; però quando mi hanno proposto sceneggiature o presentato argomenti curiosi, e che io certamente non avrei mai fatto, con a disposizione un regista che sapeva dirigermi, mi sono prestato volentieri. Lei ha firmato nel 2001 il suo ultimo lungometraggio, “Honolulu Baby”. Come mai ha interrotto la sua produzione cinematografica? Ci sono diversi motivi. Intanto Lei è uno dei pochi ben documentati sulla mia filmografia, perché molte persone credono invece che il mio ultimo film sia Luna e l’altra (1996): questo purtroppo accade perché la gente spesso è convinta di aver visto i miei film senza averlo effettivamente fatto. Mi spiego meglio. Già dopo Ratataplan (1979), che ebbe indubbiamente successo, i tempi stavano cambiando e dal 1980 in poi, complice la nascita delle televisioni private, gli spettatori a poco a poco sono stati travolti da una miriade di proposte; questo comportò che sempre meno si accorgessero quando un mio nuovo film usciva al cinema, pur avendone magari sentito parlare. In sostanza ritengo che siano più gli spettatori che abbiano visto i miei film riproposti in televisione più che al cinema, al momento della loro uscita; con l’offerta e i passaggi nelle televisioni commerciali negli anni “si sono illusi” di averli visti, pur affezionandosi anche a qualche sequenza o a qualche mio personaggio, ma spesso solo attraverso alcuni brani inframmezzati dalla pubblicità. E ciò mi dispiace moltissimo perché l’atmosfera stessa delle mie storie in questo modo, dal cinema alla televisione, cambia completamente, si perde. Sia chiaro che, senza voler demonizzare niente e nessuno, il cinema non è la televisione. Io ho fatto anche televisione e mi sono divertito, ma il cinema è altro (e lo sostengo modestamente da regista che ha prodotto piccoli film alla mia portata economica). C’è poi un problema legato alla visibilità e alla promozione dei miei film. Primo perché non mi sono mai potuto permettere un budget di grande portata per pubblicizzarli (feci i manifesti solo per Ratataplan, tutti gli altri uscirono senza). E secondo, i miei film sono sempre stati difficili da reperire in vhs o dvd: non hanno mai avuto una distribuzione così capillare. Senza contare che i vari “Blockbuster” per anni ci hanno invaso, per la maggior parte, con prodotti americani che dovevano sdoganare e vendere a tutti i costi: è facile capire così che se anche si trattava di prodotti poco esaltanti hanno avuto in questo modo una visibilità e spendibilità maggiore di altri….dei miei in primis! Io ho sempre girato e prodotto i miei film a Milano e sono rimasto al di fuori di queste logiche di promozione. E così anche l’ultimo, Honolulu Baby (2001) è uscito solo in 12 copie in tutta Italia! In Italia purtroppo non ci sono le condizioni per arricchirsi col cinema. Io ho prodotto i miei film fino a quando ho potuto, col risultato che non ho dovuto andare a far leggere i miei copioni a nessuno, però non mi sono neanche arricchito, anzi ogni volta mettevo la casa in fideiussione (per inciso non ti regala niente nessuno: le banche ti anticipano i soldi se però poi il tuo film va male, ovviamente, ti portano via tutto!). Per qualche tempo ho accettato questo rischio, poi, quando obbiettivamente mi sono reso conto che il gioco poteva essere molto rischioso e potevo rimetterci seriamente, ho smesso di produrre. In particolare dopo Luna e l’altra (1997) ho compreso che non potevo più permettermi di farlo io – e che mettersi nelle mani di un altro produttore significava che il tuo film uscisse in dodici copie! – così ho ammesso onestamente a me stesso: “io non sento la mancanza del cinema, il cinema non sente la mia mancanza, per cui faccio altro”. E mi sono dedicato alla televisione (sono stato contattato per delle fiction e le ho fatte anche volentieri), al teatro (recentemente ho diretto uno spettacolo teatrale per ragazzi che passerà a Milano da febbraio 2013), ai cartoni animati; tutti settori che comunque mi piacciono e interessano, ma non ho più cercato di realizzare film. Indubbiamente il settore dello spettacolo che mi ha dato più soddisfazioni rimane il cinema perché ti permette di controllarlo completamente. A patto di riuscirci però: nel momento cioè in cui ti trovi costretto a fare anticamere per far leggere una tua sceneggiatura ad una commissione, ad un editor o ad un dirigente televisivo, diventa tutto più faticoso. E soprattutto se si tratta di sceneggiature un po’
curiose, o diciamo non banali, non realistiche, perché quelle – è triste dirlo – non è in grado di leggerle nessuno. Chi fa questo mestiere impara a leggere le sceneggiature con delle regole standard (ad esempio devi essere credibile, realistico; dopo venti minuti ci deve essere il colpo di scena; dopo mezzora la crisi del protagonista…) e così i film diventano tutti uguali. Quando ho scritto Ratataplan, Luna e l’altra, Volere volare, sebbene conoscessi queste regole, tentai in qualche modo di fonderle ad altri elementi nel tentativo di raggiungere una originalità che sulla carta nessuno sa immaginare, perché sulla carta nessuno può sapere cosa significhi realizzare un film a tecnica mista coi cartoni animati o in bianco e nero. E fortunatamente in certi periodi della mia carriera mi diedero tanta fiducia al punto che, a volte, neanche lessero le mie sceneggiature. Se io avessi raccontato a parole Ladri di Saponette mi avrebbero dato del pazzo: riuscii a realizzare un film del genere proprio perché quando lavoravo per Canale 5 espressi la voglia di realizzare questo film ai dirigenti, e me lo fecero girare senza chiedermi di visionare la sceneggiatura. Non voglio essere frainteso: non sono certo qui a sostenere che sia sempre giusto lavorare in questo modo, perché è anche vero che non si può produrre un film se non si legge la sceneggiatura; però se questo controllo deve determinare che ognuno faccia “lo stesso film”, allora questa logica non mi va più bene. La triste realtà è che se purtroppo oggi scrivo la sceneggiatura di un film anomalo e busso alla porta di qualcuno che ha anche buona voglia di leggerla, difficilmente mi produrrà: la stragrande maggioranza della produzione degli ultimi anni è televisiva e i prodotti anomali od originali non funzionano in televisione. Oggi buona parte del cinema italiano è costituito da fiction col cast di attori che fanno televisione: si è arrivati ad una influenza e simbiosi sempre più accentuata tra questi due settori dello spettacolo che a vedere il trailer di un film italiano e quello di una fiction televisiva non si nota questa grande differenza. Sulle televisioni generaliste oggi non fanno più cinema e se lo fanno deve sembrare una fiction, con gli stessi attori, la stessa tipologia di storia, gli stessi personaggi; si capisce bene però che così non può nascere qualcosa che possa permettersi una originalità. Perché ai festival i film italiani non vincono, quasi sempre, mai niente? Perché (esclusi i casi di personalità come Garrone o Sorrentino che hanno obbiettivamente una cifra in più) oggi chi scrive film non si differenzia dalla televisione. Ma bisogna capire che il vivere la continuità e l’atmosfera di una storia, che è il pregio del cinema, diventa un difetto quando i film vengono pensati per la televisione, interrotti dalla pubblicità; certi film soprattutto presentano storie che si possono seguire solo se viste in un’unica unità di tempo. Non è forse un caso che in nessuna parte del mondo, tranne che in Italia, esista una cinematografia fatta di film ad episodi (quelli in cui il primo tempo è occupato da una storia e il secondo dall’altra). Anche il cosiddetto film corale, costituito da sei coppie dalle storie incrociate, non è che l’ennesima reincarnazione del classico film ad episodi, soltanto scritto in un altra dinamica (non viene più raccontata solo la storia di due personaggi, ma quella di otto attraverso quattro storie diverse che si intrecciano tra loro - tipo Ex o Notte prima degli esami di Brizzi). In questo modo le storie dei film vengono tutte scritte con lo stesso meccanismo di frammentazione e ordite in modo tale che, se anche si realizzano brevi sequenze, al passaggio in televisione risultano apprezzabili comunque, anche con la pubblicità. Questa narrazione frammentata crea un corto circuito tra televisione e cinema. Ma la televisione non è il cinema: un programma come Zelig ha avuto successo proprio perché ha inventato un sistema per cui lo spettatore che si sintonizza anche un’ora dopo l’inizio può comunque assistere ad un breve siparietto comico, in qualsiasi momento del programma, senza perdere nulla. Ma se lo stesso spettatore trovasse in televisione un film come Via col Vento, già iniziato da un’ora, seguirebbe qualche minuto con ansia, avendo perso tutta la storia precedente, poi penserebbe “non l’ho visto dall’inizio, non ha senso guardarlo da metà, cambio canale”. E alla televisione invece interessa solo un sistema che funzioni in modo che ogni dieci minuti si ricominci a raccontare qualcosa per continuare ad avere spettatori…
Sia chiaro, non mi sto lamentando di questi meccanismi televisivi, che ho ben presenti; ma il cinema, sottolineo ancora, è altro. Al di là di queste considerazioni bisogna infine anche essere realisti e capire che siamo in pieno 2012. Come si fa ancora a parlare ancora di lungometraggi oggi quando il pubblico non ha più la disponibilità di spendere un’ora e mezza a vedere un film ? Per provocazione: se voi cercate su YouTube un filmato da due, quattro e otto minuti, noterete dalle visualizzazioni che tutti guarderanno quello di due. Quindi, onestamente e senza rimpianto, se la realtà è questa e il pubblico vuole film da due minuti, produrremo film da due minuti (non mi spaventa, ho fatto la pubblicità che dura 30 secondi!); però questo atteggiamento sinceramente non mi stimola più a scrivere ancora un lungometraggio di neorealismo fantastico da un’ora e mezza. Oltre ad essere uno dei registi italiani che ha ricevuto più premi internazionali, ha anche partecipato a numerosi Festival del cinema come giurato, tra i più importanti ricordiamo Berlino e Cannes: cosa si prova ad essere anche dall’altra parte? Non ho mai avuto un rapporto stressato nei riguardi dei Festival. Fortunatamente mi è capitato più di vincerli che no: ho vinto il Festival di Montreal, il Festival del cinema Fantastico a Bruxelles, ho vinto a Mosca con Ladri di saponette. Per esperienza posso dire che una commedia se entra in un Festival vince, perché generalmente in quelle rassegne si assiste a film talmente tristi o strappalacrime, che una commedia fa subito la differenza. Mi sono però anche molto amareggiato perché molte volte non hanno invitato i miei film nelle rassegne, compreso a Berlino (1998) e a Cannes (1999). Quando mi invitarono come giurato a Cannes andai volentieri, nonostante precedentemente avessi già proposto molti dei miei film come Ladri di saponette, VolereVolare, che non presero mai; quella volta pensai “se mi chiamano a ricoprire un ruolo del genere, li avranno visti…”. Un giorno mi ritrovai in uno di questi immensi pranzi di giuria seduto accanto a Jacob, il direttore del Festival, e ad un tratto, nella conversazione, cominciò a presentarmi agli altri dicendo: “ah monsieur Nichetti, a fait des filmes fantastiques! (Ah il Signor Nichetti ha fatto dei film bellissimi!)”. Pensai: “ma come? Ti ho sempre mandato i miei film e non me li hai mai presi!” Credetti allora che stesse parlando così perché in quell’occasione mi trovavo a Cannes in qualità di giurato e quindi stesse “vendendo” il Nichetti giurato. E invece più parlava di me e più si entusiasmava a raccontare i miei film per filo e per segno, li conosceva nei dettagli! E nonostante questi apprezzamenti non ne ha mai ospitato uno! Questo mi ha fatto capire quanto sia importante presentarsi a questi Festival, più che con un bel film, con la “bella famiglia” (cioè con il supporto di una struttura che sappia vendere il tuo film). Un sostegno come la Rai o Medusa a Cannes ti permette di imporre un qualsiasi film italiano, anche originale; ma se ti presenti alla giuria da solo con la tua pizza, con un film anche bello, indipendente e girato a Milano dicendo ai giurati “provate a vedere se vi piace”, magari lo guardano anche, si entusiasmano, ma poi finisce comunque che non possono ospitarlo perché prima devono appunto accontentare la Rai, poi Medusa e poi tutte le altre grandi “famiglie”… Ricordo che quando mi invitarono a Mosca, chiesi ad un personaggio importante a Roma “com’è il Festival di Mosca? Mi hanno invitato con Ladri di saponette…”, e questi mi rispose in romanesco: “ma che tte devo dì, se magna male a Mosca!” Da quel “se magna male a Mosca” capii il motivo per cui avevano invitato me: sicuramente “se se magnava bene” ci andavano loro (ride)! Il concetto è molto chiaro: ad un Festival a Rio De Janeiro ci vanno certe produzioni; a Mosca quando andai io, dove faceva freddo, c’era ancora il comunismo e vivevi con le guardie che controllavano in corridoio in albergo…. certo non ci andavano loro (ride)! Scherzi a parte, bisogna anche ammettere che si trattava di un Festival enorme, affollato da tante personalità, senza contare che hanno vinto questo festival anche registi italiani importanti come Fellini e Scola. Ricordo, quando ero in aereo in viaggio per Mosca, che la delegazione di giornalisti italiani con me quasi mi faceva le condoglianze: “sai loro non hanno la televisione privata, non hanno la pubblicità, poi cosa vuoi, i riferimenti a Ladri di biciclette…ma non ti preoccupare, è già importante esserci!”. Infatti mi invitarono a Mosca solo tre giorni e poi mi fecero tornare a casa.
Quando vinsi il Gran premio non lo ritirai di persona perché ero già rientrato in Italia e nessuno si sognava di pagarmi il viaggio per tornare a Mosca (anche perché all’epoca per andare in Russia bisognava richiedere dei permessi sei mesi prima di partire ed era in vigore una procedura lunga); così me lo ritirarono quelli della delegazione di Roma. Proprio di recente mi è ricapitato per caso tra le mani un telegramma che mi aveva inviato Cianfarani nel quale mi scriveva qualcosa come “mi spiace che tu non sia qui a ritirare il premio, te lo ritiriamo noi. Complimenti.” Fu davvero una sorpresa perché nessuno si aspettava che i cinefili di Mosca conoscessero a memoria Ladri di Biciclette (film che qui in Italia quasi non riconosce nessuno perché fa parte di quella lista di film che tutti sanno che esiste ma nessuno o quasi ha mai visto!); evidentemente quel pubblico coltissimo fu capace di riconoscere le citazioni in ogni inquadratura (e io l’ho riprodotto tutto proprio in ogni inquadratura rifacendomi all’originale). Oppure può anche essere che il film abbia entusiasmato il pubblico russo perché ha toccato certe corde, come le interruzioni e i riferimenti alla pubblicità a colori, che loro non avevano: il cinema era in piedi ad urlare con applausi a scena aperta quando passò proprio la scena dei carrelli, che portava i prodotti dal bianco e nero al colore della pubblicità; evidentemente si galvanizzavano al vedere la possibilità di riempire i carrelli di prodotti dato che avevano i negozi vuoti. Ho avuto grandi soddisfazioni anche quando Volere Volare (1991) vinse a Montreal in Canada il primo premio per la miglior regia e il premio del pubblico. Quando dopo dieci anni ci tornai come giurato in omaggio fecero una proiezione all’aperto di Volere Volare: vidi almeno duemila persone che si portarono le sedie da casa per venire ad assistere a Volere Volare in piazza a Montreal. Quelle sono soddisfazioni che non mi toglie nessuno. Questi sono i ricordi più belli dei miei premi. Nonostante tutti questi riconoscimenti però non è mai accaduto che qualcuno venisse a propormi di realizzare un film. E’ risaputo: dà quasi fastidio che un’opera eccentrica abbia riscontro e seguito. La logica del mercato vuole che sia sempre opportuno che il successo rimanga entro confini più comprensibili, duplicabili e spendibili. E si capisce anche il perché: se si dà valore a qualcosa che può fare soltanto una persona, ciò non arricchisce nessuno; se invece si dà valore a qualcosa che possono realizzare in cinque, cinque possono realizzare una copia di quel qualcosa. A pensarci è un meccanismo che ha un senso. La verità è che è cambiato il mondo del cinema. Franco Cristaldi, celebre produttore delle opere prime di quasi tutto il cinema italiano (da Omicron di Gregoretti, a Olmi, a Pontecorvo), tra i quali anche il mio Ratataplan, e che per questo motivo ha rischiato molte volte producendo lungometraggi difficili, sosteneva apertamente ai convegni che il cinema vive di prototipi e che non si poteva realizzare la stesso film per due volte. Il suo cinema effettivamente era fatto di prototipi; qualche volta ha vinto anche l’Oscar, ma sempre con film che non ha mai fatto due volte. Non esisteva mai la sicurezza che un’opera che producesse potesse andar bene. Dopo la sua morte però il mondo ha preso evidentemente un’altra strada tanto che oggi il cinema si fonda esattamente sul principio contrario di quanto sostenesse, cioè su opere seriali (da 007 a Harry Potter passando per i vari Matrix 1, 2, 3, Man in black 1, 2, 3, per non parlare dei cartoni animati, e le varie saghe dal Signore degli anelli a Star wars… Investire quindi una cifra su qualcosa che ha già un trascorso ed è quindi riproponibile, determina che tu possa sommare il tuo budget di produzione ad un prodotto che il pubblico ha già introiettato: non fai quindi altro che continuare ad ingrandire il potere di un marchio. Ciò accade anche perchè il cinema oggi è diventato veicolo di altre attività; si pensi a tutto il merchandising collaterale che traina, dall’informatica, ai gadgets, ai videogiochi. Porto sempre l’esempio di Jurassic park (1993): all’epoca è stato il film che ha incassato di più al mondo e in seguito c’è stato il boom di vendite dei dinosauri pupazzo…fatti i conti dei biglietti venduti e i dinosauri che ogni bambino ha acquistato in seguito, ha incassato cifre stellari… Passiamo ora a qualche aneddoto sulla sua carriera. Lei negli anni ’70 ha intervistato per un servizio Rai Silvio Berlusconi. Cosa ricorda?
L’aneddoto interessante e curioso non sta tanto nell’aver intervistato Berlusconi in sé, quanto alla sottovalutata nascita delle tv private. Nel periodo in cui lavoravo in Rai all’Altra Domenica si cominciavano a realizzare servizi sulla nascita di queste nuove televisioni private a seguito delle liberalizzazioni. Così si fece un servizio sulle tv private di Roma allestite in scantinati dove si incontravano spogliarelliste, culturisti, e in genere tutto un mondo molto “underground”. Con questo servizio la Rai (che si sentiva “La Rai”) volle ridicolizzare queste piccole e insignificanti televisioni che avrebbero dovuto far concorrenza. Mi chiesero allora di girare un servizio anche sulle emittenti private di Milano, così mi documentai e cominciai a reperire con la redazione informazioni a riguardo: scoprii che Antenna 3 aveva a Legnano dei teatri da 2500 posti che in corso Sempione neanche esistevano; Antenna Nord che era di Rusconi; Rete Quattro di Mondadori e Telemilano, o Canale 5, di un certo Silvio Berlusconi. Nessuno mi diede l’intervista, tranne appunto questo tal Berlusconi. Ricordo che intervistai anche Mike Bongiorno, da poco passato a questa emittente privata. L’esito paradossale di questa intervista fu da un lato l’intento Rai volto a ridicolizzare queste neotelevisioni private e improvvisate (a loro giudizio!) e dall’altro documentare dati che testimoniavano una concorrenza da far veramente paura! Tornai in Rai e dissi: “qui c’è poco da ridere! (ride) Il nostro vignettista Athos ci ha chiesto di rivolgerle una domanda, legata al mondo dei cartoon, ovvero come ha conosciuto l’illustratore Roland Topor? Durante le riprese di Ratataplan eravamo in cerca di una figura curiosa di manager da inserire in una sequenza e mi fu presentato questo visionario illustratore in quanto amico di uno degli organizzatori del film – non avevamo molto a disposizione per la produzione e si doveva dare fondo a tutte le conoscenze possibili. Fu molto gentile e disponibile a partecipare alle riprese perché in fondo all’epoca io non ero nessuno: venne in Italia e in un sabato e una domenica girammo quella famosa scena in cui compare. Come ci si sente ad essere un cartone animato ? Meglio che essere dal vero! Di questi tempi specialmente… Veniamo in ultimo al suo rapporto con la zona quattro, ai suoi ricordi e all’influenza che essa ha avuto nel suo immaginario cinematografico e non. Sono nato in via Marcona l’8 maggio del 1948, ma quando avevo quattro anni la mia famiglia si è trasferita in Piazza Insubria al 10. Eravamo una famiglia piccolo borghese, mio padre era un impiegato statale. Conosco benissimo quel luogo anche perché diedi un esame in università, arte dei giardini, proprio sulla storia di quella piazza dalle origini di campo agricolo fino agli anni ‘70. Ho letteralmente vissuto l’adolescenza in quella piazza, come tutti i miei coetanei. Quando arrivai io nel 1952 c’erano ancora campi coltivati ed una roggia e ancora, sebbene fossi piccolo, ho dei ricordi dell’ultimo contadino che arava quel campo. Poi per un breve periodo divenne un deposito per le ceste del mercato (io e i miei amici giocavamo con quelle ceste in ogni modo, creando fortini o simili). In seguito hanno creato il parco giochi che, attraverso diverse trasformazioni, è presente ancora oggi. In merito alla nascita di quel parchetto ho un bel ricordo: in 4° elementare, nel 1956, ho ben presente gli allievi della Tommaso Grossi di terza e quinta elementare che piantarono gli alberi in quel piazzale. Li ho visti nascere. Ricordo poi che giocavo per strada davanti al numero 10 di Piazzale Insubria, e allora potevamo farlo perché il massimo del traffico all’epoca era costituito dal carretto elettrico del ghiaccio che passava a lunghi intervalli per raggiungere la ghiacciaia che allora esisteva ancora in piazzale Martini. Feci appunto le scuole elementari in via Monte Velino e nel film Luna e l’altra del ’97 alcuni personaggi riprendono fedelmente quelli della scuola Monte Velino, in alcuni casi rinominati (come il terribile maestro Caimi o la maestra Brambilla). Mi ha fatto molto piacere e dato molta
soddisfazione sapere che molti di quei personaggi reali si sono riconosciuti nel mio film. Il film peraltro è stato girato nell’area del macello di viale Molise, dato che la grandezza di quegli ambienti mi ha permesso di realizzare alcune scene riproducendo le vie della città. Sono quindi molto legato a quella piazza, vissuta particolarmente tra gli 8 e i 14 anni, dove sono rimasto a vivere fino ai 25 anni, anno in cui mi sono sposato.
Se qualcuno fosse interessato ad approfondire interessi e curiosità su questo regista, attore e critico può consultare il sito www.nichetti.it .
Luca Cecchelli
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