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RECENTI SVILUPPI DELLA RICERCA RELAZIONALE SULLE DEPRESSIONI1 Premessa
Questo articolo nasce dalla contemporanea uscita, in inglese ed in spagnolo, di due importanti
contributi sistemico-relazionali sul tema delle depressioni. Per i terapeuti familiari può essere utile
averne una prima sintetica anticipazione, in attesa delle auspicabili traduzioni in italiano.
Nel progettare una sorta di doppia “recensione” mi è venuto di ripensare a quanto Mara Selvini
aveva scritto o informalmente comunicato su questo argomento. Infine ho cercato di dare anche un
mio personale contributo alle ricerche in corso.
La ricerca di Eia Asen e Elsa Jones
Il libro di Asen e Jones (1) si basa sul London Depression Intervention Trial organizzato nel 1991
per confrontare l’efficacia dei farmaci anti-depressivi, della terapia cognitiva individuale e della
terapia di coppia sistemica. Pazienti diagnosticati come (gravi) depressi (da psichiatri indipendenti
rispetto ai curanti delle tre branche della ricerca) vennero assegnati con criteri di sistematica
casualità ad uno dei tre tipi di trattamento. La sezione del Trial riguardante la terapia cognitiva
dovette essere presto interrotta perché il tasso di drop era troppo elevato (8 dei primi 11 casi). Il
confronto finale è stato così effettuato tra la terapia farmacologica e la terapia sistemica di coppia ed
ha riguardato 88 casi che rispettavano i criteri di inclusione nella ricerca ed erano stati presi in
1 Articolo pubblicato su Ecologia della Mente, 25, pp. 21-39. 2 Co-responsabile della Scuola di Psicoterapia della Famiglia “Mara Selvini Palazzoli” Le osservazioni di Stefano Cirillo e Giovanni Liotti sono state preziose per la stesura di quest’articolo
Una delle scoperte più interessanti è stata quella che la terapia sistemica di coppia dava risultati
significativamente migliori della terapia cognitiva e dei farmaci.
La metodologia del Trial prevedeva una fase di diagnosi dei pazienti e dei loro partner a carico di
un’équipe di psichiatri/ricercatori. Il trattamento prevedeva un massimo di 20 sedute nell’arco di
nove mesi per le terapie di coppia e le terapie cognitive, e di un anno per le terapie farmacologiche.
I ricercatori valutavano nuovamente i pazienti alla fine del trattamento, ed ancora 12-15 mesi dopo.
I pazienti dovevano ricevere un solo tipo di trattamento, per questo quelli assegnati alla terapia
farmacologica non potevano fare psicoterapia, mentre quelli in psicoterapia non potevano ricevere
farmaci. Soggetti valutati come depressi venivano esclusi dalla ricerca se presentavano tratti
psicotici, sintomi bipolari, sintomi di disturbi cerebrali organici, un importante abuso di sostanze. I
casi sono stati assegnati ai tre trattamenti in modo che si equivalessero in termini di età, sesso,
La terapia di coppia ha dimostrato di essere il più accettabile ed il più efficace dei tre tipi di
trattamento. Questi pazienti erano meno depressi di quelli in terapia farmacologica sia alla fine del
trattamento che al follow-up dopo un anno. I drop sono stati solo il 15% contro il 56,8% della
terapia farmacologica. Inoltre la terapia di coppia ha dimostrato di non essere più costosa della
terapia farmacologica. Infatti l’evidente maggior costo delle sedute di psicoterapia rispetto alle
visite psichiatriche viene compensato dal fatto che i soggetti in terapia di coppia utilizzano molto
meno altri servizi sanitari e sociali sia durante la terapia che dopo.
E’ interessante notare che molti pazienti si autoesclusero dal progetto perché non disponibili ad
essere assegnati casualmente ad uno dei tre tipi di trattamento. Questo tipo di selezione
probabilmente è correlato alla gravità dei casi: accettare una simile casualità è indice evidente di
L’affermarsi di un modello terapeutico consensuale
Asen e Jones discutono in modo molto interessante la superiorità della terapia sistemica sulle altre
forme di trattamento in termini di minimizzazione dei drop-out. Come terapeuti sistemici siamo
specificamente addestrati alla flessibilità dell’interazione con i pazienti. Con questa casistica il
problema chiave è quello di ingaggiare nel trattamento il partner cosiddetto sano, in questo contesto
quasi sempre disinteressato al progetto di terapia di coppia.
La strategia di presa in carico descritta parte dalla accettazione della definizione della depressione
come malattia individuale. Il coniuge interviene solo come assistente o informatore. Il successo
della terapia si gioca allora su un processo di più sedute che conduca consensualmente sia il
paziente che il partner a capire/vedere la rilevanza e l’attinenza delle problematiche relazionali
rispetto all’origine ed al mantenimento del problema. Questa strategia, che ritroveremo strettamente
analoga nel lavoro di Linares e Campo (9) (e che fa parte anche della prassi della Scuola di Mara
Selvini) dimostra l’affermarsi di modelli democratico/consensuali nella pratica della terapia
sistemica (6). Siamo ben lontani da quello che facevano molti pionieri della terapia familiare, a
partire da Mara Selvini, con il prendere autoritariamente di petto la famiglie dichiarando, ad
esempio, all’incipit di una prima seduta, che l’anoressia mentale non è altro che uno sciopero della
fame non dichiarato contro qualcuno. Analoghe considerazioni si potrebbero fare sull’autoritarismo
strutturale di Minuchin o su quello provocatorio di Whitaker.
Verso modelli di psicoterapia basati su procedure riproducibili
Questo libro è molto importante anche per un’altra ragione che credo legata in modo essenziale alla
possibilità di futuro sviluppo della psicoterapia.
Il progetto di ricerca ha costretto Asen e Jones a scrivere un manuale che concretamente e
dettagliatamente descrive che cos’è una terapia sistemica di coppia, chiarendo cosa si fa nelle prime
sedute, in quelle intermedie e in quelle finali e con quali tecniche di ipotizzazione, di “joining”, di
presa in carico, intervista circolare, “enactment”, messa a fuoco delle risorse, soluzione dei
problemi, sfida, prescrizioni, con quali varianti delle convocazioni ecc. Come vedremo anche
Linares e Campo propongono analogamente una procedura che prevede una certa successione di
L’idea della psicoterapia diviene così oggi quella di una procedura che è insieme strutturata,
flessibile e consensuale. In questo modo diviene possibile una ben più mirata verifica dei risultati:
siamo in grado di affermare di che cosa esattamente stiamo valutando gli effetti. E non solo, si può
così cominciare a riflettere su quali procedure siano più adatte per tipi di problemi diversi. Ad
esempio, se il nostro oggetto di ricerca fosse invece la depressione in giovani adulti che non hanno
una stabile relazione di coppia dovremmo ipotizzare un diverso manuale, dove diverrebbe strategico
progettare l'integrazione di sedute individuali con sedute con la famiglia di origine.
Asen e Jones sono stati costretti a scrivere un manuale perché uno dei compiti dei ricercatori era
quello di verificare le videoregistrazioni delle sedute, controllando che corrispondessero a quanto
previsto dal manuale. Ma un simile modo di procedere credo si debba generalizzare all’intera
pratica professionale della terapia familiare. Così come è pure evidente la sua utilità nella
Che cos’è la depressione?
Non posso in questa sede riprendere i contenuti del manuale, che sintetizza molti concetti classici
della terapia sistemica. Il punto di partenza è una definizione della depressione come incapacità ad
adattarsi a determinati eventi o cambiamenti. In particolare Elsa Jones sostiene: “ho trovato utile
considerare la depressione come una risposta ad una esperienza di impotenza (powerlessness) che
può essere stata attivata da situazioni infantili e familiari come l’abuso e la trascuratezza, da più
recenti esperienze interpersonali quali la perdita di attaccamenti e relazioni, dal sentirsi privi di
aiuto davanti ad eventi o dalla perdita del senso di efficacia personale davanti a situazioni
contestuali o abusi di potere, o da una combinazione di tutti questi fattori” (p. 46). Insomma tutta
una serie di fattori personali, relazionali e sociali (isolamento, povertà, disoccupazione) fanno sì che
un individuo si senta “schiacciato giù” (de-presso).
La popolazione su cui Asen e Jones hanno lavorato, appartiene a contesti socialmente svantaggiati
in cui la dimensione della violenza agita è molto significativa. Tra i casi trattati da Elsa Jones il
50% dei pazienti ha sperimentato un abuso sessuale nell’infanzia, il 40% vive una situazione di
violenza nella relazione con il partner, il 71% ha subito nell’infanzia dei maltrattamenti fisici (il
20% tra i partner), molti riferiscono di aver assistito a violenze fisiche tra i loro genitori (p. 99).
Cito questi dati perché rimandano in modo immediato a quelli di carenza e depredazione che
Linares e Campo pongono al centro della loro ricerca sulla depressione maggiore.
Infine voglio sottolineare come il successo dei trattamenti di Asen e Jones sia stato ottenuto
nonostante abbiano lavorato separatamente con le coppie loro assegnate. Non hanno quindi potuto
contare sulla dimensione di équipe, che è sicuramente uno dei grandi punti di forza delle terapie
sistemiche. Probabilmente questo è stato possibile sia per la grande esperienza dei due terapeuti, che
proprio grazie al riferimento al manuale che aiuta a pianificare il trattamento.
Il contributo della Scuola di Barcellona
Linares e Campo ci parlano di una popolazione che, pur essendo diagnosticamente identica a quella
londinese, ha una diversa estrazione sociale: famiglie piccolo e medio borghesi, dove la paziente
(qui ancora più spesso una donna) dopo essere stata in trattamento psichiatrico viene inviata dal suo
stesso curante ad un servizio universitario di psicoterapia. Anche il contesto dell’esperienza è così
molto diverso: un intenso lavoro in équipe in un contesto che è contemporaneamente clinico e
didattico (la scuola di psicoterapia familiare di Barcellona).
Linares e Campo ironizzano in modo molto divertente sulla grande passione della psichiatria
“biologista” per la depressione maggiore: finalmente una malattia “proprio come tutte le altre” (p.
15) con una bella base biologica e tanti farmaci vecchi e nuovi fino al grande fenomeno Prozac.
Finalmente pazienti “con coscienza di malattia, questa rara introspezione autocritica che gli
psichiatri perseguono inutilmente nella maggioranza degli altri loro pazienti” gente seria e
controllata che può portare la sua necessità di compiacere il terapeuta fino al punto di sentirsi molto
in colpa quando ricadendo lo contraddicono!”. Coniugi e famiglie sacrificali, pronti a tutto per
rendersi utili: “per una psichiatria abituata a sguazzare nelle fogne della condizione umana è
impossibile non simpatizzare con questi casi di rispettabilità costituita dal depresso maggiore e della
Di qui il titolo del libro traducibile come “Dietro una facciata di rispettabilità”.
In questo contesto i coniugi dei pazienti appaiono almeno formalmente diversi da quelli visti da
Asen e Jones: più “rispettabili” e collaborativi.
Linares e Campo, a differenza di Asen e Jones, partono dalla classica distinzione tra depressione
maggiore e depressione distimica (o nevrotica), tracciandone una chiarissima differenziazione nel
retroterra relazionale: nella depressione maggiore le esperienze di carenza e depredazione vissute
nella famiglia di origine si riattualizzano nel rapporto di coppia e nella famiglia di procreazione.
Invece i distimici si collocano in un contesto relazionale caratterizzato dalla lotta per il potere.
Escalation complementare nel primo caso, escalation simmetrica nel secondo. Coppie stabili nel
Linares e Campo sviluppano un’interessante distinzione tra le dimensioni della genitorialità e della
coniugalità nelle famiglie di origine di questi pazienti. In quelle dei depressi maggiori la relazione
di coppia (coniugalità) dei genitori è sufficientemente funzionale /soddisfacente, mentre è la
relazione verticale, genitoriale verso i figli ad essere carente. Al contrario i genitori dei distimici
sono “sufficientemente buoni” ed è quindi piuttosto il loro modello di coppia conflittuale e
triangolante ad avere un impatto non positivo sui processi di formazione dell’identità dei figli. “Un
figlio che riceve messaggi contemporanei e contradditori quali ‘stai dalla mia parte e non con
quello/quella’, ‘ti do io di più’, ‘ti do quello di cui più hai bisogno’, ‘i miei valori sono migliori dei
suoi’”. In definitiva una situazione seriamente a rischio per la genesi di un’ansietà di base. Ma per
arrivare alla sintomatologia distimica è necessario un altro ingrediente: quello della perdita.
Situazione in parte implicita nella triangolazione stessa.
Questo libro sostiene che mentre la depressione maggiore appare un fenomeno di più chiara
definibilità, sia dal punto di vista della diagnosi descrittiva che da quello relazionale, la distimia
sembra coprire un universo più variegato di disturbi ansiosi, psicosomatici, isterici, fobico-
ossessivo, insomma tutta quella che tradizionalmente è stata considerata l’area nevrotica.
La distinzione delle due dimensioni di genitorialità e di coniugalità è importante perché va nella
direzione di distinguere ed integrare quelli che nella storia della psicoterapia sono stati concetti
troppo rigidamente utilizzati. La psicoanalisi, infatti, ha utilizzato quasi esclusivamente la
dimensione della genitorialità, nell’ottica che la psicopatologia venisse trasmessa dal genitore al
figlio, presupponendo che una psicopatologia più o meno coperta nel genitore divenisse esplicita nel
figlio. Una tesi non solo scientificamente errata, ma anche pericolosa per la possibilità che un
terapeuta possa empaticamente ascoltare il genitore di un paziente.
Pure troppo rigidi sono stati gli sviluppi sistemici: con il concetto di triangolazione (il figlio
reagisce non tanto ai genitori quanto al rapporto tra i genitori) e con la sua evoluzione “Selviniana”
in “stallo di coppia”. La genitorialità venne “cancellata” in quanto diadica ed insieme venne
introdotto un atteggiamento aprioristicamente negativo verso le coppie dei genitori dei pazienti:
anche quelle che apparivano normali o addirittura armoniose, dovevano sicuramente essere solo
“abili” a mascherare le loro patologie. Accettare ed integrare le due dimensioni della genitorialità e
della coniugalità sicuramente aiuta il pensiero complesso del terapeuta verso un ascolto della
La ripresa della riflessione sulle radici relazionali delle nevrosi
Un grosso merito di Linares e Campo è senza dubbio quello di contribuire a un dibattito relazionale
sulle nevrosi, aree tradizionalmente molto trascurata dal movimento sistemico.
Linares e Campo riprendono il classico concetto freudiano di conflitto edipico per riformularlo in
termini di triangolazione manipolatoria provocatrice di un’ansietà nevrotica di base. Il bambino è
posto in un conflitto di lealtà per cui comunque si comporti (un po’ come il celebre cane di Pavlov)
sarà sanzionato (minaccia di castrazione) da uno dei due genitori che sarà scontento di lui.
Nelle nevrosi il contesto relazionale è così di marca soprattutto competitiva e simmetrica. Qualora
nella triangolazione siano presenti componenti seduttive ed erotiche avremo sintomi nevrotici della
La riflessione sulle nevrosi ha avuto storicamente un interessante punto di partenza nel lavoro di
Sluzki e Veron nel 1971 come sviluppo del concetto di doppio legame (17): l’isteria sarebbe una
risposta a comunicazioni del tipo: “prendi iniziative, ma ricorda che è proibito prendere iniziative”,
le fobie corrisponderebbero al messaggio: “sii indipendente dipendendo da me” ed il disturbo
ossessivo-compulsivo risponderebbe a messaggi quali “sii indipendente anche se, naturalmente, ne
Linares e Campo commentano come queste interessanti intuizioni abbiano avuto scarsi sviluppi nel
campo sistemico, per il prevalere di un atteggiamento sistemico-collettivista avverso al prendere in
considerazione le variabili di tipo strettamente individuale.
Basti vedere, infatti, quanto osserva Gianfranco Cecchin nella sua introduzione al libro di Asen e
Jones: “I terapeuti sistemici hanno sempre avuto il dubbio, o la convinzione, che l’atto di etichettare
una persona con una diagnosi aggravi i problemi di questa persona” (1, p.XIII).
Ma forse in questi ultimi anni, grazie all’influenza degli studi sull’attaccamento ed ai riferimenti ai
disturbi di personalità, stanno maturando le condizioni per una ripresa della ricerca relazionale sulle
nevrosi. Si veda il recente lavoro di Valeria Ugazio (18) sulle polarità semantiche nelle fobie e nei
disturbi ossessivi. Nell’ultima parte di questo articolo proporrò alcune idee sulle radici relazionali
Svalorizzazione e depressione maggiore
Voglio invece ora ritornare alla descrizione relazionale di Linares e Campo della depressione
Abbiamo già accennato alla dimensione carenziale e depredatoria di una genitorialità disfunzionale.
Questi bambini hanno dato, nell’equilibrio dello scambio affettivo, molto di più di quello che hanno
ricevuto (p. 24). Non possono metacomunicare o protestare e quindi non resta loro che la fuga.
Tendono ad incontrare un partner che ha bisogno di dimostrare agli altri ed a se stesso di essere
capace di dare, mentre in realtà non è in grado di farlo veramente.
Nella famiglia di origine la paziente è stata soprattutto svalorizzata, e condizionata da una forte
preoccupazione di rispondere alle aspettative degli altri. Questo implica sacrificalità, doverismo,
rinuncia al proprio piacere e alla realizzazione dei propri desideri.
La relazione coniugale, per un periodo più o meno lungo, illude la paziente di aver trovato un
compenso alle antiche svalorizzazioni, ingiustizie, umiliazioni. Quando invece queste si
riproducono, con la partecipazione attiva o con la mancata tutela del coniuge, ecco precipitare lo
scompenso depressivo maggiore. Linares e Campo descrivono lungamente il caso di Margherita.
Margherita si scompensa in seguito alla grave ingiustizia inflittale dai suoi fratelli che caricano
totalmente su di lei l’assistenza al padre vecchio e malato. Tre elementi relazionali colpiscono come
fondamentali: 1) i fratelli trattano Margherita come quella “servetta” di famiglia che è sempre stata;
2) il coniuge non difende affatto la moglie da questa ingiustizia, anzi cerca di fare la bella figura di
quello “tanto buono”; 3) Margherita stessa è gravemente complice di questo gioco relazionale
perché da sempre corre in soccorso di tutti, ora corre continuamente dal padre e lo accoglie poi in
casa, senza fare nulla per difendere se stessa, né per richiamare i fratelli alle loro responsabilità.
Margherita occupa così una posizione chiaramente complementare down sia rispetto alla sua
famiglia di origine che rispetto al coniuge (che ha voluto la convivenza con la sua propria madre).
La strategia terapeutica, portata avanti principalmente con la coppia, ma anche con il
coinvolgimento “una tantum” dei figli e della famiglia di origine e con alcune sedute individuali
con la paziente, passa attraverso il legittimare una reazione assertiva della paziente, che combatte i
processi di idealizzazione del coniuge e della famiglia di origine.
Linares e Campo sottolineano molto bene come questa strategia sia molto diversa dall’intervento
con la depressione distimica dove spesso l’espressione dei sentimenti può essere eccessiva e
sterilmente accusatoria, mentre, parallelamente, il paziente possiede normali attitudini assertive. Il
terapeuta dovrà quindi porsi in un atteggiamento di forte alleanza con il paziente nella depressione
maggiore, mentre sarà decisamente più neutrale nella depressione distimica. Infatti in questo
secondo caso il nucleo della terapia consiste nell’aiutare il paziente ad uscire da quella escalation
simmetrico-conflittuale di cui i suoi sintomi sono divenuti parte integrante.
Quello che dice Cancrini (3) nel titolo del suo bel libro-intervista: “Date parola al dolore”, ed in un
suo recente articolo (4) sembra quindi adattarsi alla descrizione della depressione maggiore.
Cancrini parla infatti della depressione come di un lutto non elaborato: un dolore importante, una
perdita non è stata raccontata/espressa in una relazione significativa e non ha quindi trovato un
ascolto partecipe ed empatico (p.33 e 38).
Queste teorizzazioni sono in accordo complementare e non in opposizione con le teorie di quei
clinici e ricercatori che si sono occupati della depressione come legata alla resa (alla sconfitta) in un
sistema motivazionale competitivo (16). Impotenza, carenza, depredazione, svalorizzazione,
perdita, umiliazione e sconfitta sembrano essere le diverse “facce” della depressione,
manifestazione sintomatica di un dolore non superato/elaborato.
Quello che ha pensato Mara Selvini Palazzoli
Linares e Campo hanno scritto un libro molto “Selviniano” nel senso della passione della ricerca sul
perché una persona diventa proprio anoressica, o psicotica, o appunto proprio con quel tipo di
depressione. Insomma si vuole restare dentro la classica impostazione della medicina: cercare le
Asen e Jones sono pure certamente influenzati, come evidente dalla loro biografia professionale,
dalle idee di Mara Selvini, ma per quella parte legata alle tematiche post-moderne e costruttiviste
sulla scia di “Ipotizzazione, Circolarità, Neutralità” (14). Infatti l’approccio di Asen e Jones è molto
pragmatico: descrivono il modello terapeutico sistemico adattato a quello specifico contesto clinico
e di ricerca. La diagnosi è qualcosa che subiscono, una costrizione esterna di cui volentieri si
farebbe a meno, portata dai pazienti stessi e dagli invianti. Al contrario Mara Selvini, Linares e
Campo vanno attivamente alla ricerca di una diagnosi, e di diagnosi differenziali, per sviluppare
ragionamenti che ci spieghino cosa produce delle differenze nello sviluppo delle persone e, di
conseguenza, la loro diversa “etichettabilità”.
Si contrappone così un’impostazione clinica eziologicamente “agnostica” e clinicamente
pragmatica ad una impostazione dove capire le cause della sofferenza depressiva, non solo nel
singolo caso, ma anche più in generale, diviene basilare.
Asen e Jones sono “politicamente corretti” nella classica direzione post-moderna: dato che realtà e
verità non esistono, agli utenti vanno proposte più ipotesi contemporaneamente per aprirli a più
prospettive. Linares e Campo cercano invece delle generalizzazioni, che, come quelle della Selvini,
affascinano per la loro semplicità e chiarezza, e contemporaneamente corrono il rischio di apparire
come generalizzazioni eccessive. Insomma la differenza essenziale passa per la priorità e legittimità
della ricerca sulle radici relazionali delle diverse psicopatologie.
In Linares e Campo non ho ritrovato solo uno spirito “Selviniano” nella terapia e nella ricerca, ma
anche idee e contenuti fortemente affini. La descrizione del “gioco relazionale” del coniuge della
paziente gravemente depressa, uomo formalmente “perfetto”, adorato dai suoceri, ammirato dai
figli, ma in realtà svalutante e sottilmente distruttivo nei confronti della moglie, è ipotesi relazionale
ricorrente nelle cartelle cliniche della Selvini. Un marito “infermiere psichiatrico” che inchioda la
moglie nel ruolo della impotente, inattendibile, incapace.
Mara Selvini non lavorò abitualmente con pazienti depressi maggiori. Mi ha però colpito ritrovare
nel testo di Linares e Campo la parola “depredazione” come chiave per l’interpretazione psicologica
di questo tipo di sofferenza. Anche negli appunti delle supervisioni di Mara Selvini a Corsico
(materiali non pubblicati), durante la sua principale esperienza di lavoro nella psichiatria pubblica
(7), si ritrova proprio quella stessa parola, sia riferita alla depressione post-partum ed al “furto” del
neonato ad opera di coniuge, suocera o cognata, ma anche a proposito di dinamiche successive,
allorché un analogo “furto” riguarda bambini o adolescenti (si veda il ritornare delle stesse ipotesi
nel caso di Cinzia nel libro a cura di Cirillo, Selvini, Sorrentino “La terapia familiare nei servizi
La Selvini e le nevrosi
Quanto alle nevrosi non è certamente un tema di cui la Selvini abbia amato occuparsi. La sua
vocazione professionale era fortemente orientata verso i disturbi gravi, ed il suo atteggiamento era
quasi di insofferenza verso pazienti portatori di disturbi minori. Tuttavia, se andiamo a rileggere un
vecchio articolo della fase psicoanalitica e comunicazionalista: “L’ossessivo e il suo coniuge”,
scritto verso la fine degli anni ’60, a quattro mani con Paolo Ferraresi (15) ci troviamo in pieno
nella descrizione del sintomo nevrotico come organico ad una lotta simmetrica per il potere:
“Nel corso delle transazioni, il marito appare sempre in posizione di inferiorità e la moglie in posizione di superiorità. Si tratta di una relazione imperniata sulla competizione, da dove la moglie, in apparenza esce vincitrice ed il marito perdente. Ma nella misura in cui nessuno è disposto ad essere (anche se può accettare di apparire tale) costantemente perdente nella relazione con l’altro, Rodolfo si prende la sua rivincita dissimulandola come sindome patologica. Non è lui ad imporsi, ma la sua malattia. Qualcosa che è più forte sia di lui che della moglie. Sono i rituali, gli scrupoli, la meticolosità che dettano le regole e fissano le leggi della loro esistenza. Chi comanda è così la malattia. E Sabrina, da parte sua può tollerare di sottomettersi, non a suo marito, ma alla “sua malattia” (p. 52). I sistemi motivazionali interpersonali
Il modello molto più recentemente rielaborato e proposto da Giovanni Liotti conferma questa linea
interpretativa delle nevrosi. Liotti infatti illustra una classificazione delle interazioni in “sistemi
motivazionali interpersonali”(SMI): attaccamento/accudimento, corteggiamento, competizione,
Dentro un SMI “competitivo” la depressione è la fisiologica risposta del perdente (16). La
sofferenza della depressione distimica avrebbe così una qualità ben diversa dall’angoscia depressiva
maggiore, collocabile invece nel quadro della disfunzione di un SMI attaccamento/accudimento.
Potrebbe essere utile sviluppare la differenziazione tra depressione maggiore e distimia in termini di
Il depresso maggiore è rimasto fissato dentro il tentativo di attuare un attaccamento/accudimento
soddisfacente e non è potuto così entrare in un SMI competitivo che rappresenta una tappa
successiva dell’evoluzione personale. Al contrario il paziente distimico ha vissuto un attaccamento
sufficientemente buono e ha così avuto accesso alla più evoluta dimensione del SMI competitivo.
Questa distinzione, sia qui detto per inciso, ricorda molto da vicino la classica distinzione
psicoanalitica tra matrice pre-edipica o edipica delle psicopatologie osservate in soggetti
adolescenti/adulti. In altre parole si potrebbe dire che una carenza primaria non consente di entrare
in una dimensione motivazionale competitiva (e quindi vitale) e questo porta a stroncare sul nascere
molte potenzialità di valorizzazione. Evitare le sfide significa essere sconfitti in partenza.
Percorsi di elaborazione della trascuratezza
Proviamo adesso a seguire Linares e Campo nel mettere a fuoco il tipo di sviluppo possibile per
bambini carenziati e trascurati, concentrandoci sulla dimensione della genitorialità, e lasciando per
semplicità da parte quella della coniugalità.
Non è forse facilissimo definire cosa si intenda per TRASCURATEZZA o CARENZA di un
In sintesi potremmo definirla come una situazione in cui il genitore non ha né tempo né testa per i
bisogni del figlio, perché è molto preso da varie problematiche economiche, emotive, personali e
relazionali. Problemi di coppia, problemi con altri figli, problemi nella famiglia di origine ecc.
Il nostro problema teorico di fondo è quello di capire cosa fa sì che il bambino elabori la
trascuratezza in un modo piuttosto che in un altro dei tanti possibili.
Ovviamente si potrebbe ragionare in termini di attaccamento ansioso, evitante, disorganizzato e
varie combinazioni. Ad esempio tracciando una corrispondenza tra trascuratezza e
Preferisco però proporre qui una tipologia più semplicemente leggibile:
1) diviene autarchico nel senso di contare solo su se stesso, sulle sue capacità, e sviluppa una
sfiducia di base negli altri e nella possibilità che lo aiutino. Non pare essere questa la strada
presa da una buona parte dei pazienti depressi che in genere non sono autarchici, e cioè non
hanno avuto questo tipo di reazione, tanto è vero che sono i più “coniugati” dalla psichiatria,
cercano la relazione con l’altro, si sentono sbagliati/incompleti loro stessi. Analizzando la
reazione autarchica troviamo immediatamente importanti varianti che elenco in base alla
crescente radicalità dell’autarchia: a) quella ossessiva: baderò a me stesso, la mia prima
preoccupazione sarà quella di tenere sempre tutto sotto controllo, mi salverò rispettando le
regole; b) quella narcisista: baderò a me stesso essendo speciale; c) quella schizoide-paranoide:
baderò a me stesso stando sempre molto attento a che nessuno mi avvicini e possa così ferirmi.
Ci sono sicuramente altre varianti. Si noti che quella ossessiva comporta molta ansietà di base.
Le altre due paiono più auto-tranquillizzanti, almeno in apparenza.
L’autarchico narcisista può andare incontro ad un declino o scacco del suo “essere speciale” che
innesca lo scompenso depressivo (4, p. 41). Non sono altrettanto chiare le possibili cause di uno
scompenso depressivo in un autarchico ossessivo o schizoide.
2) Parentificazione: il bambino diviene genitore dei genitori o di un genitore. Se questa iper-
responsabilizzazione viene riconosciuta e valorizzata produce un giovane iper-responsabile e ben
funzionante almeno su molti livelli. La variante più patogena in senso depressivo potrebbe essere la
parentificazione non riconosciuta e svalutata.
3) Il bambino diventa punitivo, controllante e dittatore nei confronti del genitore. Si batte per farsi
valere ed ottenere attenzione. Potrebbe essere una delle matrici di tratti di personalità del cluster
impulsivo: anti-sociale, borderline, narcisista ed istrionico. Queste sue caratteristiche “disturbanti”
possono portare ad un attivo rifiuto ostile nei suoi confronti che determina un sintomo depressivo.
4) Il bambino va alla ricerca di altre figure genitoriali di riferimento: una nonna, una sorella
maggiore, un insegnante, un partner ecc. Resta in compenso finché tale ricerca ha successo.
5) Il bambino si ammala. Questa potrebbe essere una variante dell’ipotesi 3). La malattia può
consentire un accudimento anti-depressivo, ma anche facilitare un distacco che genera depressione.
6) Il bambino diventa fortemente dipendente dal genitore di riferimento: fa tutto quello che il
genitore desidera e si autoconvince di desiderare quello che in realtà il genitore desidera. Diventa un
figlio “perfetto”, ma insieme può essere molto pesante, “colloso”, richiedente. Questo potrebbe
essere una matrice di tratti del cluster ansioso: dipendenti ed evitanti. Anche qui la “pesantezza”
della dipendenza potrebbe alla fine portare a un rifiuto che causa depressione.
Probabilmente sono possibili altre percorsi o delle sovrapposizioni di questi sei percorsi. Seguendo
la mia esperienza personale e le indicazioni di Linares e Campo potremmo pensare che soprattutto i
percorsi 2) parentificazione e 6) dipendenza siano quelli che predispongono alla depressione
maggiore. Come si vede i percorsi citati sono quelli più lontani dalla dimensione competitiva,
conflittuale e assertiva. Sono quelli basati sull’assoggettarsi in un modo o nell’altro ai bisogni e ai
Tornando alla differenziazione depressione/distimia
Nella distimia il percorso è diverso perché non c’è la dimensione della trascuratezza o carenzialità
di base. Il punto di partenza è piuttosto quello della base ansiosa e della triangolazione.
Alla importante carenza del sistema di attaccamento possiamo pensare corrisponda un’angoscia più
profonda: non esisto, non conto nulla, non valgo niente. Cioè l’angoscia comunemente descritta
Invece quella che possiamo definire ansia e l’incertezza sul proprio valore, sulle scelte compiute, la
presenza di più circoscritte paure del mondo esterno, l’insicurezza sul proprio aspetto fisico o sulla
propria salute ecc. Insomma si tratta del disagio comunemente definito come nevrotico.
Due tipi di accondiscendenza e di parentificazione
Nel contesto di questa distinzione tra depressione e distimia in termini di SMI potrebbe essere utile
introdurre una distinzione rispetto al classico concetto di accondiscendenza di cui parlavo poco fa a
L’accondiscendenza del bambino che resta dentro un SMI dell’attaccamento disfunzionale è
qualitativamente diversa dall’accondiscendenza del bambino sufficientemente sicuro anche se
magari “triangolato”, dove l’accondiscendenza è una forma di lealtà ad un genitore di riferimento.
Può essere necessario distinguere tra parentificazione riuscita e parentificazione fallita. Il bambino
parentificato che viene confermato e valorizzato in questo ruolo non è a rischio di depressione
maggiore perché in qualche modo ha potuto godere di una sufficiente conferma che ha costituito
Il bambino parentificato che non viene valorizzato, ma resta in una posizione marginale o servile, è
fortemente a rischio di depressione maggiore. Questo per quanto riguarda il percorso che ho
definito con il n° 2 (parentificazione). Tuttavia il percorso n° 6 (dipendenza) potrebbe essere ancora
più tipico per lo sviluppo di una successiva depressione, in quanto implica:
- livelli molto maggiori di squalifica e svalorizzazione. Il bambino da sempre è stato vissuto come
- assenza di riconoscimento dell’apporto positivo regalato agli adulti
Per una sorta di circolo vizioso tali squalifiche bloccano le capacità assertive del bambino verso il
far valere i suoi desideri ed idee. Diviene impossibile la dimensione del conflitto interpersonale.
Nel percorso della dipendenza l’attaccamento è ansioso o disorganizzato. Si sviluppano tratti di
personalità di tipo dipendente o evitante basati su una forte componente di svalorizzazione di se
E’ sempre la figura di riferimento ad essere valorizzata come punto di riferimento vitale, però
questa figura alimenta la dipendenza con una più o meno aperta svalorizzazione/sfiducia/squalifica.
Non ci sono quindi elementi di inversione dei ruoli o parentificazione che produrrebbero una
valorizzazione anti-depressiva, non c’è nemmeno una vera riorganizzazione ossessiva che sarebbe
pure valorizzante nel saper bastare a se stessi. Non ci sono insomma le due varianti della
riorganizzazione nel senso del comportamento punitivo (percorso n° 3) o controllante benevolo del
bambino verso i genitori (percorso n° 2). Abbiano qui allora la vera accondiscendenza dove si
arriva addirittura a desiderare quello che l’altro di riferimento desidera per noi.
Un orientamento timoroso (evitante), ma desideroso verso le relazioni, che porta quindi molto
spesso al matrimonio con un coniuge desideroso di essere valorizzato nel ruolo di salvatore. Il
coniuge sostituisce il genitore come punto di riferimento per la dipendenza del paziente.
Il bambino parentificato con successo ha invece davanti un’altra traiettoria, è molto più assertivo,
tende casomai a riprodurre il ruolo di aiutante//salvatore vissuto in famiglia.
Possiamo eventualmente trovare personalità miste, con oscillazioni tra le due forme, che
corrispondono ad oscillazioni tra parentificazione e dipendenza vissute nella famiglia di origine.
Dipendente servile e dipendente capriccioso
Potremmo avere due varianti del bambino dipendente:
quello totalmente accondiscendente fino al punto di arrivare ad un vero servilismo e plagio, quello
che cerca di riequilibrare la sostanziale dipendenza con atteggiamenti capricciosi e richiedenti
(questo crea un problema di diagnosi differenziale con il percorso n° 3 del bambino dittatore).
Beck (2, p. 20) descrive molto bene le assunzioni disfunzionali di una donna depressa che nella sua
vita ha cercato sempre di soddisfare tutti quelli che incontrava. Una vera dipendente è diversa dalla
accondiscendente “nevrotica” perché crede di desiderare e desidera quello che l’altro ha in mente
che lei faccia. E’ evidente il nesso tra auto-svalutazione e le forme più radicali di accondiscendenza.
Ho attualmente in terapia una giovane donna depressa che ben esemplifica le due varianti citate
della dipendenza: è totalmente succube degli uomini, verso la madre è di fatto molto subordinata,
ma manifesta anche tratti rivendicativi e richiedenti.
Ricadute sulla strategia terapeutica
Queste riflessioni ripropongono la basilare differenza di strategia terapeutica per depressi maggiori
e distimici: con i primi potrebbe essere possibile che il terapeuta divenga una base sicura sufficiente
a trasformare la depressione in rabbia vitale, spingendoli ad essere più capaci di lottare per se stessi,
per difendersi da umiliazioni e depredazioni. In questi casi il misconoscimento (idealizzazione,
confusione) di figure affettive importanti è determinante nel mantenimento di un sentimento di
impotenza. Al contrario con i distimici si tratta di aiutarli a recuperare un senso di positiva
appartenenza rispetto a relazioni familiari che loro stessi hanno contribuito e contribuiscono a
negativizzare eccessivamente con atteggiamenti ipercritici. Come già dicevamo l’elaborazione della
perdita (Cancrini 4, cit.) sarebbe fondamentale soprattutto con i depressi maggiori. Secondo Linares
e Campo il protocollo di una terapia della depressione maggiore si basa su una combinazione di
sedute di coppia, con la famiglia di origine del paziente, con i figli, individuali. La successione delle
convocazioni è in linea di massima questa e la durata di circa due anni.
Il protocollo della distimia si basa ancora di più sulla convocazione di coppia, mirata ad una
migliore negoziazione degli equilibri di potere e alla demarcazione rispetto alle famiglie estese , per
Qualche spunto per una teoria relazionale dell’ansia
Come abbiamo visto Linares e Campo ci forniscono un buon punto di partenza con il concetto di
triangolazione ansiogena. L’ansia è così un fattore di vulnerabilità ed una perdita può scatenare
sintomi depressivi. Si vedano a questo proposito le ricerche citate da Holmes (8, p. 187) che
dimostrano come le depressioni siano precedute nel 60/70% dei casi da una grave perdita nel corso
dell'ultimo anno, una percentuale ben superiore al 20% misurabile nella popolazione generale,
Altri percorsi ansiogeni sembrano più legati alla dimensione della genitorialità che a quella della
parentalità. Infatti, un secondo percorso ansiogeno, in parte sovrapponibile al precedente, è quello
della parentificazione riuscita di cui abbiano parlato. L’adultizzazione precoce rende ansioso e teso
un bambino che deve essere molto attento a controllare i suoi genitori (o i suoi fratelli), il bambino è
messo di fronte a responsabilità più grandi di lui. Si veda il caso di una bambina ansiosa in quanto
iper-coinvolta nel conflitto tra i suoi genitori.
Un terzo percorso ci viene spesso illustrato dalle vite “autarchiche” dei padri di alcuni nostri
pazienti. Fin da piccolo il bambino deve badare a se stesso, cresce spesso in collegio o comunque
lontano da casa. Sviluppa un atteggiamento di ansioso di iper-controllo sull’ambiente. Questi adulti
mostrano molto bene il permanere di uno stato di iper-vigilanza tipico di soggetti che mai hanno
potuto rilassarsi nella sicurezza di poter contare su figure protettive.
Un quarto percorso rimanda ancora più direttamente alle teorie dell’attaccamento. Mentre il
percorso precedente potrebbe essere definito ansioso-evitante, quest’altro percorso è invece
ansioso-ambivalente. Il bambino vive le figure di attaccamento come imprevedibili, instabili, per le
continue discontinuità nell’umore e nella presenza. Anche questo tipo di insicurezza genera un’iper-
vigilanza matrice di un’ansia di base.
Infine un quinto percorso, ancora una volta in buona parte sovrapponibile ai precedenti, mette a
fuoco la dimensione del “contagio ansioso”. Il genitore spaventato spaventa il bambino.
Percorsi ansiogeni di questi cinque tipi possono essere ricostruiti nel lavoro psicoterapeutico con
una vasta gamma di psicopatologie, non solo di tipo depressivo e con soggetti di età diverse. Ad
esempio l’enuresi di un bambino di 10 anni potrebbe essere interpretata come collegata al suo poter
“disattivare” solo durante il sonno uno stato diurno di iper-vigilanza ansiosa.
Conclusioni
Asen e Jones ci incoraggiano soprattutto sul terreno dell’efficacia del nostro lavoro di psicoterapeuti
relazionali. Linares e Campo ci incoraggiano soprattutto a continuare ed approfondire la ricerca
sulle radici relazionali delle diverse patologie.
Lo studio delle depressioni richiede un grande lavoro: molto resta da fare sul terreno dei disturbi
bipolari, o nella ricerca delle cause delle depressioni negli adolescenti o giovani adulti non ancora
entrati in una relazione di coppia, o nei casi in cui la difficoltà sembra proprio ruotare sulla
difficoltà a costruire relazioni affettive stabili e soddisfacenti.
Con questo mio contributo ho voluto proporre qualche idea che spero possa essere utile a future
ricerche che approfondiscano i collegamenti tra percorsi evolutivi individuali, tratti di personalità,
relazioni familiari e tipi di psicopatologie. In particolare ho qui solo accennato alla tematica
fondamentale delle depressioni come sintomo di scompenso in differenti assetti disfunzionali di
personalità: ad esempio nel border, nello schizoide o nel dipendente certamente richiedono una
comprensione ed un trattamento differenti.
In senso più pragmatico (vedi anche Selvini 13) credo possa essere utile seguire i suggerimenti di
Cancrini (3) nello spiegare ai nostri pazienti che la loro non è una malattia, ma un sintomo. E
potremmo anche seguire la Jones (1) nel definire questo sintomo come l’incapacità ad adattarsi ad
eventi che hanno prodotto un forte sentimento di impotenza. La psicoterapia prenderà allora le
mosse dall’unire il paziente, terapeuti ed i familiari nello sforzo di comprendere il senso e le radici
di quel sentimento di disperata impotenza.
RIASSUNTO
Questo articolo racconta e commenta due recenti ed importanti contributi sulle depressioni: quello inglese di Asen e Jones e quello spagnolo di Linares e Campo. Cerca di farli dialogare con qualche spunto di Mara Selvini Palazzoli e con le idee di Luigi Cancrini ed infine si conclude con alcuni concetti dell’autore basati sulla teoria dell’attaccamento e dei sistemi motivazionali interpersonali. Il tutto nella prospettiva di progettare efficaci protocolli psicoterapeutici per i diversi tipi di depressione. Protocoli “Selviniani” nel senso di essere basati su ipotesi eziopatogenetiche. SUMMARY This paper describes and comments on two recent contributions on depressions: an English one by Asen and Jones, and a Spanish one by Linares and Campo. The paper wishes to create a dialogue between these contributions and some intuitions of Mara Selvini Palazzoli and Luigi Cancrini’s ideas. Finally Matteo Selvini concludes with some concepts based on attachment theory and interpersonal motivational systems. All this in the aim of projecting efficient psychotherapeutic protocols for the different types of depression. “Selvini’s “ protocolos in the sense of being based on etiopathogenic hypoteses. RESUMEN Este articulo explica y comenta dos recientes y importantes contributos sobre las depresiones: el inglés de Asen/Jones y el español de Linares/Campo. Intenta establecer un diálogo entre estos contributos y algunas intuiciones de Mara Selvini Palazzoli y las ideas de Luigi Cancrini. Al final termina con algunos conceptos del autor basados sobre la teoria del apego y de los sistemas motivacionales interpersonales. Todo esto con la perspectiva de realizar protocoles psicoterapéuticos eficaces para los diferentes tipos de depresiones. Protocoles “Selvinianos” en el sentido de estar basados sobre hipótesis etiopatogeneas.
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